Sull'opera di Pietro De Stephanis.

Una leggenda sul Castello di Pettorano.

Nota testuale alla monografia di Pietro De Stephanis su Pettorano

di Pasquale Orsini

castello_2_smallNella lettura della monografia di Pietro De Stephanis relativa a Pettorano mi ha sempre colpito una notizia, relativa al Castello medievale, che non ero mai riuscito a precisare ulteriormente attraverso la ricerca bibliografica. Scrive il De Stephanis: «ne' secoli posteriori quelle torri furono destinate ad orrido carcere, onde s'ingenerava sì fatto spavento, che trasmise fino agli ultimi tempi la tradizione degli spettri de' martoriati vagolanti di notte entro le torri e su per le ruine del luogo abbandonato, divenuto albergo e ritrovo di lemuri e di streghe». E aggiungeva in nota: «questa tradizione superstiziosa, cui credemmo anche noi nella nostra infanzia, ha somministrato al sig. Augusto Vecchj il subbietto di una bella leggenda stampata nel I vol. delle Tradiz. Italiane, Torino 1847».


Nonostante mi sia dato da fare per cercare quest'opera citata, non sono mai riuscito a trovarla. Solo in seguito ho compreso che l'opera in questione è la seguente: Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani, opera diretta da Angelo Brofferio, I, Torino, Stab. tip. di A. Fontana, 1847. Augusto De Vecchi in realtà ha solo contribuito a scrivere una parte di questo volume.

Ma la sorpresa - se così si può chiamare - non è finita qui. Infatti, nel manoscritto che conserva gli appunti ed il testo della monografia di Pettorano - ora conservato presso la Biblioteca Diocesana di Sulmona, nel fondo De Stephanis - ho trovato, trascritto dalla mano dello stesso Pietro, l'intero passo che riguarda la leggenda sul Castello di Pettorano. Ho pensato, pertanto, di fare cosa utile trascriverlo e renderlo pubblico, con l'avvertenza che non ho apportato correzioni di nessun tipo al testo, ma ho eseguito - come si suol dire - una trascrizione diplomatica.

«Sulla prima cresta dell'Appennino, a poche miglia da Sulmona, sorge un paesello edificato su per l'erta a' piedi della torre di un antico castello, il quale sembra sfidare il furiar de' venti e delle procelle. Le mura di macigno ingiallite dalla lunga età, i merli in parte caduti, le torri screpolate, guaste e sorrette ancora dall'edera antica che le ha strettamente abbracciate co' suoi grossi rami serpeggianti, attestano al viandante - il quale, incaminandosi per la via che dagli Abruzzi mena al contado di Molise, le mira da basso - quante rivoluzioni han veduto agitarsi d'intorno, a quanti secoli hanno sopravvissuto, e a quanti altri sopravvivranno pria di cedere compiutamente a quel destino che tutto accomuna quaggiù.

Se interroghi gli abitanti di Pettorano sulla storia di quel diruto castello, essi ti narreranno in voce de' loro padri intere pagine di crudeltà da farti rizzare i capelli pel raccapriccio; ti parleranno di soprusi, di intestine contese, di assedi e di sconfitte, le quali valgono meglio del tempo a distruggere l'orgoglio ed il fasto là dove si annida. Le donne ed i bimbi impallidiscono al fiero racconto de' mariti e de' padri, ed aggiungono che nel buio della notte, ne' tempi andati, udivansi gemiti ed urli, e al rintocco di una campana posta sulla torre maggiore, ora ruinata del tutto, vedevasi il lume di una fiaccola scintillare via via sulle finestre e sulle crepacce del castello, e disperdersi di un tratto nelle cavità e nelle fosse già a metà colme dalle cadute macie. Quelle grida lamentose a quel sinistro chiarore erano cagionate - talmente que' timorosi spingono le illusioni de' loro padri - dalle anime dannate dalla giustizia vendicatrice del Dio ne' luoghi inferni, per iscontarvi la pena de' loro misfatti contro le innocenti creature che avevano immolato alla loro cupidigia e alle atrocità d'ogni maniera, o dalle streghe che quivi si adunavano a conciliabolo nefasto, per nuocere colle loro fattucchiere alla vita, alla pace de' villani abitanti a tre miglia di circonferenza, e a pregiudicarli nelle loro speranze e ne' loro ricolti.

Coteste paure - quantunque i misteri notturni già da gran tempo non si riannovellino più nel ruinato castello - agitano sempre le menti di que' buoni montagnardi: e all'aspetto d'un vecchio lacero e pezzente, dalla sinistra fisonomia, a di uno sconosciuto che abbia il naso un po' troppo risentito e prominente, il loro cuore è ricercato dalla memoria delle antiche malie, de' rapimenti e delle offerte cruente fatte dalle lammie malefiche al genio che soprasta alla eterna perdizione. Un maligno spirito, certo, avrà data origine - e Dio sa per quale riguardo! - a que' rintocchi di campana, a quegli ululati e a quell'agitarsi improvviso di fiaccole per entro alle abbandonate mura».

Il documento di Pasquale Orsini è disponibile anche in formato pdf cliccando qui.